Su Mastodon c’è questo bel thread intorno a “Facendo a pezzi la cultura della monogamia”, si potrebbe continuare a scriverne qua, vien più comodo, non c’è il limite di 500/840 caratteri, le diramazioni si seguono meglio ed è più facile tornarci su.
A me è poi venuto in mente che ne “I reietti dell’altro pianeta”, altrimenti noto come “Quelli di Anarres”, titolo originale “Dispossessed: an ambiguos utopia”, di Ursula K. Le Guin, al capitolo 10 ci sono due parti che hanno attinenza con il discorso, le ho copincollate.
SPOILERONI SEGUONO
– Accidenti, sono d’accordo! Ora, è proprio la cosa che alcuni non capiscono. Ma come la vedo io, se vai molto in giro a copulare quando sei un ragazzo, è quello il periodo migliore, ma poi finisci per accorgerti che è sempre la stessa cosa. Una gran bella cosa, però! Comunque, ciò che è diverso non è la copula; è l’altra persona. E diciott’anni è appena l’inizio, giustissimo, se vuoi capire fino in fondo quella differenza. Almeno, se quella che vuoi capire è una donna. Una donna non ammetterà mai che un uomo sia altrettanto un problema, ma forse le donne fanno finta… Comunque, è proprio questo il piacere della cosa. Il problema, le finte e controfinte e così via. La varietà. Ma per avere la varietà non basta semplicemente andare in giro. Io giravo tutta Anarres, da giovane. Ho portato macchine in ogni Divisione. Avrò conosciuto cento ragazze in tante città diverse. E la cosa diventava noiosa. Allora sono tornato qui, e faccio questo percorso ogni tre decadi, anno dopo anno in questo deserto, sempre lo stesso, dove non si distingue una collina di sabbia dall’altra ed è tutto uguale per tremila chilometri da qualunque parte uno guardi, e torno a casa dalla stessa compagna… e non mi annoio neppure una volta. Non è il cambiare sempre da un posto all’altro, che ti tiene interessato. È l’avere il tempo dalla tua. Lavorare con esso, non contro di esso.
[…]
L’esaudimento, pensò Shevek, è una funzione del tempo. La ricerca del piacere è circolare, ripetitiva, atemporale. La ricerca di varietà dello spettatore, del cacciatore di emozioni, di colui che pratica la promiscuità sessuale, termina sempre nello stesso punto. Ha una fine. Giunge alla fine e deve ricominciare. Non è un viaggio di andata e ritorno, ma un ciclo chiuso, una stanza chiusa a chiave, una cella.
Al di fuori della stanza chiusa a chiave c’è il passaggio del tempo, in cui lo spirito può, con la fortuna e il coraggio, costruire le fragili, improvvisate, improbabili strade e città della fedeltà: un paesaggio abitabile dagli esseri umani.
Soltanto quando un atto si svolge entro il paesaggio del passato e del futuro esso è un atto umano. La fedeltà, che asserisce la continuità di passato e futuro, e collega il tempo in un tutto unico, è la radice della forza umana; non c’è alcun bene che si possa compiere senza di essa.
Così, guardando indietro a quei quattro anni, Shevek li vide non come anni sprecati, ma come una parte dell’edificio che egli e Takver stavano costruendo con le loro vite. Il valore del lavorare con il tempo, invece che contro di esso, egli pensò, è che così non è sprecato. Anche il dolore conta.